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San Salvi e gli spedali dei Matterelli

Prima di tracciare una breve storia dell’ospedale psichiatrico di San Salvi, occorre conoscere ciò che accadeva prima, soprattutto nella nostra città, come erano curati (è un eufemismo) coloro che mostravano segni evidenti di alienazione mentale.

I primi farmaci specifici giungono in Italia solo nel 1950. Prima di quella data i matterelli venivano curati con salassi, lassativi e purganti nella convinzione , anche dei medici, che il male fosse dentro e che dovesse uscire fuori , togliere il sangue cattivo insomma.

Ovviamente non esistevano ospedali pubblici, solo a Roma nasce l’Ospedale Santa Maria della Pietà intorno a l 1548, sovvenzionato da qualche filantropo, un luogo dove ci si occupava anche dei “matti” che vagavano nella città. A Firenze fino al 1643 i poveri matterelli venivano rinchiusi nel carcere delle Stinche, palazzo dove oggi sorge il teatro Verdi. Non esiste più niente di quel luogo ma, le immagini che ci sono giunte, sono impressionanti: un enorme cubo in pietra, senza alcuna finestra e solo due porte. Un carcere di massima sicurezza dunque.

Nel 1643 vede la luce il primo manicomio cittadino sito in via Ghibellina, dove i “poveri matterelli” godono di assistenza medica e camere singole (si era convinti che il malato, se non a contatto con altri, sarebbe riuscito a tornar savio). Nasce così la “Pia casa di Santa Dorotea” , a pagamento e quindi rivolta solo alle famiglie agiate.

Altro manicomio presente a Firenze prese il nome, più che eloquente, di Pazzeria di Santa Maria Nuova, luogo pubblico annesso all’ospedale ma dislocato in un’area appartata . Ad entrambi si deve il pregio di aver tolto gli alienati mentali dalle carceri comuni e di averne certificato la necessità delle cure. Naturalmente questo valeva solo per i “matti” tranquilli, per gli altri, gli agitati, catene in entrambi i manicomi.

Più tardi la Pazzeria viene chiusa e Santa Dorotea, unico ospedale psichiatrico di Firenze, assumerà le sembianze di un fortilizio più somigliante a un carcere che ad un ospedale. La mancanza di spazio costringe le autorità cittadine a trovare una sede più ampia ed allora Santa Dorotea viene trasferita nell’immenso edificio che ospitava l’antico ospedale di Bonifacio. Il trasferimento avviene nel 1785 e il nuovo manicomio prende il nome di “Ospedale della Carità per i Dementi”.

La direzione viene affidata a Vincenzo Chiarugi. Con lui si avrà un deciso cambiamento di rotta nei confronti dei malati mentali: la sua gestione sarà strettamente ospedaliera e “basata sui colloqui con i degenti”: egli scriverà (nel 1794) un testo fondamentale sulle “Pazzie” che avrà un enorme diffusione anche all’estero. In esso egli suppone che le pazzie siano “un errore di giudizio su come [i pazzerelli] vedono le cose” che per i malati di mente sono molto diverse da quelle degli altri uomini nelle stesse situazioni. Pazzo=malato è il suo credo e su di esso fonda tutta la sua opera scientifica e il suo lavoro sul campo, cioè in ospedale. I malati saranno divisi in categorie patologiche pertanto gli agitati divisi da quelli tranquilli e convalescenti. Dopo Chiarugi, la direzione passa a Bini il quale chiede un nuovo spazio per il manicomio che sarà identificato, appunto, nell’area di San Salvi.

L’ospedale psichiatrico di San Salvi nasce a Firenze 9 settembre del 1890 e viene intitolato a Vincenzo Chiarugi. Il nuovo ospedale ha la struttura di un grande villaggio, vi sono vari padiglioni, ad ovest quelli maschili ad est quelli femminili collegati fra loro da corridoi terrazzati e gallerie sotterranee.

Il nome San Salvi lo si deve al Santo francese del VII secolo cui i monaci vallombrosini dedicarono il nome al proprio convento, attiguo al manicomio ovvero la chiesa di San Michele. Ne gergo popolare, San Salvi, prende il nome di “Tetti Rossi” dal colore delle tegole degli edifici che si vedono oltre la cinta muraria.

Le idee di Chiarugi vengono sperimentate nel nuovo manicomio inteso come luogo artificiale ordinato e rigoroso in opposizione al disordine mentale che affligge i malati. Anche le leggi istituzionali impedivano al malato qualsiasi diritto alla soggettività e alla vita civile : “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo”. Per molti anni i malati vestirono solo camicioni, vivevano in cameroni protetti da sbarre e chiusi a chiave, godevano di poche ore d’aria e costantemente controllati. Solo I “tranquilli” avevano il permesso di lavorare come prassi curativa, quella che fu definita ergoterapia. Ancora negli anni’50 le cure assumevano per lo più effetti di tortura sul corpo: elettroshock, insulinoterapia, malaria terapia, lobotomia. Veniva adoperata la contenzione fisica fino a quando vennero introdotti gli psicofarmaci usati in rilevanti quantità.

Dalla data della sua apertura, vi sono state rinchiuse fino a 4.000 persone in condizioni da ‘lager’, tra i quali il poeta Dino Campana, che vi rimase internato per 14 anni. Due affermati fotografi italiani, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, nel 1968 documenteranno in un agghiacciante reportage fotografico la situazione di San Salvi: immagini dure di donne e uomini prigionieri, legati, umiliati (cfr. C.Cerati, G.B.Gardin, Morire di classe, Einaudi 1969). Solo conoscendo gli aspetti di quella realtà possiamo capire il significato del movimento rivoluzionario degli anni ’60 che ha poi portato, con la legge Basaglia, alla chiusura dei manicomi.

Dietro la spinta delle nuove idee e, soprattutto il crescente interesse che i media dedicavano a queste tematiche fino allora dimenticate dai più ( come non ricordare il bellissimo film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) , nel 1964 un gruppo di operatori di San Salvi aprì un centro riabilitativo utilizzando una casa colonica presente all’interno dell’ospedale, più o meno il magazzino dove venivano conservati i vini, “La tinaia”. Fu una tappa strategica questa, che rappresentò per molti ricoverati il punto di passaggio verso un nuovo inserimento sociale.

La definitiva chiusura dei manicomi su tutto il territorio nazionale avverrà con la Legge 180 del 1978, conosciuta come legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che più fortemente la volle. Nel 1998 San Salvi viene definitivamente chiuso.

Per i pazienti che non avevano famiglia furono ristrutturate alcune palazzine all’interno dell’ospedale dove potevano vivere in autonomia con il sostegno di una equipe medica e psicologica.
Curiosamente, quando venne fondato San Salvi Firenze contava 170.000 abitanti, considerando il numero di coloro che erano ricoverati in manicomio se ne dedurrebbe che vi era un “matto” ogni 40 fiorentini! Claudio Ascoli che ha lavorato a San Salvi con la sua compagnia teatrale Chille de Balanza per ben18 anni, ci svela perché i conti non tornano. Ad essere ricoverati, ovvero rinchiusi, a San Salvi, non erano soltanto i malati mentali ma anche altre categorie di persone che con l’alienazione mentale non avevano a che fare: poveracci, donne ancor più se ragazze madri, omosessuali e lesbiche, dissidenti del regime fascista, alcolisti e diseredati dalla società civile.
Dalla sua chiusura San Salvi resta in bilico fra vecchio e nuovo, ovviamente non ci sono più i padiglioni né le sale di contenimento ma il futuro dell’area non è stato scritto, resta ancora tutto in «stand by», peccato perché molto sta sbiadendo e rischia di deteriorarsi definitivamente . Il futuro della cittadella rimane un gran punto interrogativo.
Alcune curiosità: nei primi anni del ‘500” Martin Lutero in viaggio per Roma fu ricoverato nella “Pazzeria “ di Santa Maria nuova e si trovò benissimo, anche perché “essendo un religioso fu ospitato in una delle “camere speciali” riservate ai religiosi (e ai nobili).
Al cinema Stensen (Viale Don Minzoni 25/a) il 25 novembre 2014 fu proiettato il documentario: “col nome del delirio” Testimonianze dirette e racconti di Bianca Pananti, Simone Malavolti e Leonardo Filastò.

Maria Cristina Calamai

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